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VIA CRUCIS



Di Duccio Castelli




Non è facile, per un ragazzo cresciuto, per "un uomo" (che a ventiquattro anni uno crede di esserlo), per un figlio di laici esonerato dal'ora di religione, per un ragazzo che ha vissuto - anche se a malincuore -  il Sessantotto,  inginocchiarsi.

Sono gli anni in cui di più ci si sente  osservati da noi stessi, ci si vede in uno specchio totale, ci si osserva nelle foto di noi, in cerca di conferme, in cerca del dettaglio che conta e che ancora noi lo si possa forgiare, decidere, cambiare come la cravatta per essere più belli. E controlliamo che si sia davvero cresciuti e che siano lavati i denti, messo il deodorante e pure il preservativo nel portafoglio (mai usato ma che figura da fare con gi amici a quei tempi).  Che tutto, a questa età è inteso per la donna, da conquistare, da riconquistare, da carpire.

Come ti vedi allora, con gli occhi degli amici di scuola, del poker, dello  sport, inginocchiato, a pregare? E da solo!  E nemmeno... in chiesa, obbligato a un funerale, dove ti puoi dare un distaccato, scettico, mondano tono? Si, d'accordo,  non lo sapranno.. ma tu lo sai! E la vergogna della convenzione, ti rode. Mi ero sposato da poche settimane e mia moglie stava morendo per una sconosciuta  malattia tropicale. Dopo un mese me l'avevano data per spacciata, all'ospedale degli infettivi  di Milano, a Dergano, il Lazzaretto del 1970. 

Le stazioni della Via Crucis le avevo viste tre anni prima a Gerusalemme. E lì sì, che ero un pirla, come diciamo a Milano. Lì avevo deriso il poco che sapevo della Via Crucis, facendoci fotografie di sbadigli e di piedi stanchi da turisti. 

Nella vita che mi aspettava invece, le pietre miliari della mia via mi avrebbero atteso, dopo quella prima volta inginocchiato, puntuali e  solenni.  Rispondendo con strepitosa puntualità alle mie preghiere. Mia moglie guarì.  La vita si sarebbe svolta.

 
   
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