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«Sono una donna che è infedele a milioni di uomini»


GRETA GARBO





di Umberto Pellicci




"Buongiorno Miss. Garbo!" recitava con deferenza Carl Peterson, il portiere in divisa dello stabile sulla 52esima, quando la vecchia signora, con il bavero del loden rialzato, usciva di casa ai primi fuochi dell'alba, seguita dal cane e dalla domestica, in direzione dell'East River.
New York, la “grande mela”, era ancora appesa ai rami di Morfeo.
Gli unici vocalizzi provenivano dalle sponde dell'Hudson; di là, il fiato del vento, mischiato all'olio e al salmastro, allungava sulle strade di Manhattan, le grida stridule dei gabbiani, che scivolavano leggeri sulle crespe dell'acqua.
A quel richiamo, puntuale come sempre, obbediva miss Garbo, ovvero: Harriet Brown, l'anziana donna, che sotto falso nome, con la sciarpa alla bocca e il volto nascosto dalle lenti scure degli occhiali, cercava di ripararsi dalla brezza del mattino, e dal flash dei soliti fotografi appostati sui marciapiedi dell'Upper East Side.
“Non mi seccate. Andatevene!” sbraitava la Garbo, mentre tentava di sfuggire all'obiettivo dei reporter.
“Vi prego, lasciatemi in pace” ripeteva con la voce incrinata dall'affanno.
Erano le medesime parole che rimuginava in gola fin da bambina, e che ogni volta sputava sulla faccia degli scocciatori, o dei fans che l'assediavano fuori degli studios.
In quel modo si era difesa da Stiller agli inizi di carriera, e aveva frenato le pretese appassionate di John Gilbert, quando l'attore strusciava la lingua ai suoi piedi.
Lei, la Divina, la stella del “muto e del sonoro”, e poi di nuovo diva del “silenzio”, dopo il the end del 1941, chiedeva soltanto di star sola, di essere dimenticata.
“Non voglio sopravvivermi. Non voglio commemorarmi. Mi sono sacrificata per creare un'immagine di bellezza, che ormai è sfiorita.
Voi cercate un modello che non esiste più. Avete capito adesso perché mi nascondo?” spiegava ai giornalisti del Daily News, che invano la supplicavano per avere un'intervista.
Dal momento in cui era sgusciata via dalla luce dei riflettori, si era chiusa in un appartamento di sette stanze, con le finestre sull'East River, circondata dai nudi di Renoir e di Modigliani. In genere, la sera, consumava il pasto al ristorante vegetariano della 114esima, nei pressi di Harlem.
Dopo cena, con il feltro calato sul viso, si trasferiva con la domestica nella camera buia di una cineteca sulla Terza Avenue, attirata dai cult-movie che riproponevano i suoi antefatti di attrice.
Nella penombra della sala, la Garbo era solita commentare ad alta voce le figure di celluloide, che sfilavano “mute” in sequenza sullo schermo, provocando risentimento e fastidio tra gli spettatori.
La governante l'ascoltava in silenzio; ormai era abituata alla fiumana di parole che Greta ripeteva come un ritornello.
“Proprio in quei giorni, mentre ero impegnata sul set, mia sorella Alva morì di tubercolosi” insisteva la Garbo, con gli occhi velati dalle lacrime. “Ero distrutta dal dolore.
Ma lui, Stiller, se ne fregava dei sentimenti altrui, non aveva pietà, ti succhiava il sangue, ti svenava.
Nelle sue mani eri un giocattolo, una marionetta; ed io l'odiavo, e…lo amavo, ero stregata dal suo genio…..”.

Anatomia di un'attrice

Del rapporto con Mauritz Stiller, un regista finno-svedese di origine ebrea, la Garbo conservava, a quanto pare, un ricordo ambivalente, una miscela di accordi e di contrari. Era stato lui a “scoprirla” tra le allieve del Royal Dramatic Theatre di Stoccolma, e ad accendere le voglie irrisolte della starlet che batteva le scene di provincia. Ed ancora lui, Stiller, l'aveva chiamata Greta con “Garbo”, al posto dell'anonima Lovisa Gustafsson, una ragazzotta di ascendenze lapponi, nata il 18 settembre del 1905 a Soder, un quartiere a sud di Stoccolma, e che alla morte del padre Karl, si era adattata ad insaponare i clienti dal barbiere di Blekingegatan.
Stiller dunque fu il primo ad accorgersi di Lovisa e a dare credito alle sue ambizioni. Da tempo era alla ricerca di una attrice dai lineamenti astratti e stilizzati, e scelse Greta, col suo viso all'apparenza glaciale, aristocratico, fatto apposta per diventare simbolo, l'emblema del mistero, della spiritualità al femminile. La costrinse a dimagrire, ad usare il trucco, a vestirsi, a pensare, a recitare. E quando l'opera di restauro fu terminata, e Stiller la mise in mostra sulla tela dello schermo ne La leggenda di Gösta Berling, perfino i mercanti d'arte di Hollywood, notoriamente diffidenti verso i fotogrammi d'importazione, fecero la fila per assistere allo spettacolo.
“L'attrice svedese ha ipnotizzato i provinciali d'America” scrisse un critico del New York Times.
“Il segreto del suo fascino” intervenne il fotografo Cecil Beaton, “sembra risiedere in una sensibilità che sfugge e ossessiona. Sorride senza gioia, soffre senza lacrime, ama senza il cuore”.
Anche il produttore Louis B. Mayer restò turbato dalla sua indecifrabile bellezza, e la invitò a firmare un contratto triennale per la Metro.
L'esordio hollywoodiano della Garbo avvenne nel 1926, con Il torrente, nella parte di una femme fatale e perversa, un ruolo che fece poi da stereotipo ai personaggi successivi. Nello stesso anno, Mauritz Stiller la chiamò ad interpretare La tentatrice, accanto ad Antonio Moreno. Quel film purtroppo dovette subire diversi contrattempi, a causa appunto dei metodi di lavoro usati da Stiller. Il regista svedese, pedante e dispotico, ripeteva le inquadrature fino alla nausea, esasperava gli attori, non era mai soddisfatto.
“È stata un'esperienza terribile” ammise la Garbo. “Accanto a lui ho provato il martirio del Getsemani. Vuole tutto, pretende anche l'anima”.
Ci pensò Louis Mayer a mettere fine al supplizio. La cinepresa passò nelle mani di Fred Niblo; e a Stiller, privato della sua “creatura”, persa la patria potestà sulla bambola che aveva visto nascere, non rimase che fare ritorno in patria, dove morì suicida nel 1928.
La Garbo, che in un certo qual modo si sentiva responsabile per il tragico gesto del “maestro”, ebbe una lunga crisi di sconforto. Pianse, si disperò; era intenzionata ad abbandonare il cinema.
Per consolarla, Louis Mayer le inviò un telegramma, e alle condoglianze aggiunse una bottiglia di brandy.
“Mi dispiace” le scrisse nel biglietto, “ma lo spettacolo continua".

Greta parla

“Che magnetismo, che donna! È capricciosa, seducente e bizzarra, come un demonio. Senza dubbio è l'attrice più originale e dotata di talento con cui abbia lavorato ” confessò John Gilbert, partner di Greta in "La carne e il diavolo", Anna Karenina, e anche nel Destino (sic), perché stando ai pettegolezzi “diletti”, si dice che l'avesse baciata in entrambi i modi: fra le coperte, e sul lenzuolo (dello schermo).
Che tra Gilbert e Greta Garbo ci fosse del tenero, è assai probabile. Di certo sappiamo, che quella love-story, presunta o reale, si era dipanata in silenzio, sul nastro della pellicola, scandita dal linguaggio del “muto”, con sorrisi, sguardi, ammiccamenti, e abbracci voluttuosi. Ma all'avvento del “parlato”, la passione di Gilbert si sgonfiò, trafitta da un imprevisto acuto di naso e gola.
“Quella voce stridula, in falsetto, è la vera grande tragedia del sonoro” osservò il produttore Adolph Zukor. “Somiglia più ad un pappagallo che ad un innamorato” ribadì il regista King Vidor, scuotendo la testa.
Gilbert, che all'epoca guadagnava 250mila dollari a film, vide scendere le sue quotazioni al livello di una scatola di pop-corn. Crollava un mito, e nasceva la leggenda della Divina.
“Greta parla” titolarono i giornali all'uscita di "Anna Christie" , il suo primo esame orale, registrato nel 1930 da Clarence Brown. Nel film, la Garbo si esibiva nella parte di una prostituta, che frequentava i quartieri malfamati di New York, un personaggio ispirato al dramma di Eugene O'Neill.
“Dammi un whisky, e non fare il tirchio, baby” così recitava Greta, appena apparve in scena nella bettola del porto. Furono parole che rimasero impresse negli annali del cinema, perché pronunciate da lei, con la sua voce di gola, da contralto, che si adattava perfettamente al tipo di donna sensuale, perversa e un po' strega, che aveva da sempre rappresentato. Una sincronia, audio e visiva, che invece era mancata a Gilbert. Dopo Anna Christie, l'attività di Greta continuò a ritmo sostenuto. Fece La modella, la Cortigiana, Mata Hari, Margherita Gauthier, Maria Walewska, e Ninotchka, tutte raffigurazioni dell'immaginario erotico femminile, e del suo in particolare.
“Sullo schermo, quando la Garbo fa l'amore” dichiarò la scrittrice americana Majorie Rosen, “il suo partner diventa invisibile. Lei, in quei momenti, sembra al culmine di una solitaria autostimolazione dei sensi, eseguita apposta per eccitare gli spettatori-guardoni, che la sbirciano in sala, come se fossero seduti davanti al buco della serratura”.
Fu allora, che eserciti di donne cercarono di imitarla, nella moda e nel trucco, depilandosi le sopracciglia, indossando colbacchi e pantaloni, e tagliandosi i capelli alla “paggio”. Gli uomini invece, facevano carte false per recitare al suo fianco, nella speranza di accedere al cuore, di rubarle un sorriso, o di sfogliare i petali del suo fiore segreto. Ci provarono: Ramon Novarro, Erich von Strohein, Melvyn Douglas, e Clark Gable; inutilmente. “Io sono una donna” disse, quasi a voler giustificare le pieghe sospette del suo carattere, "che è infedele a milioni di uomini”. La frase, secondo lo stile di Greta, lasciava intendere, ma non chiariva. Si azzardò l'ipotesi che fosse bisessuale od omosessuale; e a riprova di ciò, le furono attribuite diverse storie sentimentali di genere femminile. "Non tradirmi con me!" in questo ultimo film di Greta, girato nel 1941, il regista George Cukor le insegnò a ballare la rumba, gli mise due clips di falsi brillanti nei capelli arricciati, e, per la prima ed unica volta, la costrinse a subire le avances di un uomo. Fu un fallimento totale. A trentasei anni la Garbo usciva di scena. “Troppo giovane, troppo bella, troppo presto” scrissero i giornali. Sembrava l'epigrafe di un funerale, quello di Greta appunto: la Divina, che anticipava di mezzo secolo la morte della sconosciuta signorina Lovisa Gustafsson, annunciata il 15 aprile 1990, nel giorno di Pasqua, dal portavoce del New York Hospital di Manhattan.

 
   
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