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EMIGRANZA



Di Duccio Castelli




Vedo chiaro attraverso quella tavola da pranzo  da venti persone, un viso di donna di una contadina con in braccio un pupo, il viso sfuma, traspare lo sfondo di una stanza da letto, un bagno, una grande cucina, tutto è arcaico in quella casa di campagna. Una campagna in mezzo al Sudamerica, e intorno è un gusto, un profumo, un lieve odore di antico, di scaffale, di paternità nascoste, proibite.  
Le frasche, le sequoie, le coltivazioni d'alfalfa, stanno grandi subito dopo gli orti. Affidate altrove, o a figli ingrati, a parenti incattiviti. Qui a tratti siedono frotte di proci alla mensa, come anche amici sinceri.
E' compleanno a Peòr es Nada, ("Meglio di niente"); che  così lo chiamarono questo villaggio quelli che lo abitarono per primi. Dovevano essere in gamba. Cose d'America. Qui vicino c'è anche "Roma", come pure "Polonia" e un immancabile "La Troya".  
La casa, il terreno, le erbe, tutto appartiene a un italiano d'Abruzzi che ora compie gli anni e che già l'italiano quasi non lo parla più. Oggi ne compie  ottantasei anni, ed è piantato a capotavola da generazioni. Il grande salone rustico è tinto di rosso pompeiano e tempestato di infiniti suoi cimeli. Ordinatissimi rivelano le tappe della vita  di un uomo, che è soltanto uno dei quaranta, dei cinquanta milioni degli  italiani che sono emigrati in America negli ultimi secoli.
Una foto ingiallita nella grande cornice, spicca sopra a un crocifisso d'argento da mezzo chilo. Ecco - mi sussurra solenne - coloro i quali mi hanno dato la vita. A cui sarò sempre grandemente riconoscente: mia madre; mio padre.
Vedendomi curiosare tra gli oggetti, mi conduce e mi scorta verso i pezzi per lui migliori. Saliamo una torretta dove giacciono sparsi vecchi giochi di bambini oggi scomparsi in uomini, non so dove, non so quali. Lui mi confida, guardando le piantagioni, tutti i suoi crucci, saggiamente ormai pacati, stanchi.
Una vena gli è triste, ma questo vecchio crede di non mostrarla.  Io non la vedo. Altrove spicca una croce in oro di una nomina  incorniciata, a Cavaliere, avuta nel 1968 dal Presidente della Repubblica Italiana. Non cosa da poco ed inattesa. Per meriti  nel lavoro (in miniere dalla Australia al Cile, trovando nuove soluzioni tecniche, partito con le pezze al culo, istruzione scolastica nulla... il tutto oggi appare alla faccia dei professori e delle convenzioni). Amo i grandi. Amo certa anarchia. Come pure amo le nostre tradizioni, le mie tradizioni.  Amo a volte perfino l'incoerenza, se necessaria.
Ecco improvvise vocette di bimbi in spagnolo, ecco il timbro del meridione dell'amico che si esprime in un castigliano italianizzato, da buon antico emigrante (così come a New York si esprimevano con lo stesso tono ma nell'inglese italianizzato, anzi non inglese ma puro  americano).   Dal fondo un vecchio giradischi-giracassette ci imbeve  di canzoni d'altrove e d'altro tempo. Italia. Tango argentino  (quanto di più bello ci ha dato l'America, dopo il Jazz).  Poi immancabile ci giunge il tema del Padrino..
E qui mi perdo tra la seconda razione di una succulenta e perfetta lasagna fatta in casa, e la malinconia. Mi vien su dal naso un calore umido che me li fa amare, questi italiani sfuggiti, come scintille. Questi  padri saggi, queste vestali di quella che fu la  nostra stirpe. E le parole stasera, sono sassi.

 
   
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