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“IL DIAVOLO IN CORPO” DI RAYMOND RADIGUET



di Stefano Bernardinelli



Scritto negli anni immediatamente successivi alla prima guerra mondiale, Il diavolo in corpo “sbarca” in Italia nel secondo dopoguerra, con la traduzione di Maria Ortiz per Bompiani del 1946; l’anno dopo esce il film di Autant-Lara tratto dal romanzo, grande successo che consacra Gérard Philipe, nella parte del protagonista, come star internazionale. Molto più recente, del 1986, è la versione del regista italiano Marco Bellocchio, ambientata ai giorni nostri. Ma quali sono gli “ingredienti” della fama che accompagna il libro, e che spesso ci viene incontro prima ancora di iniziarne la lettura? Sono sostanzialmente due. Il primo è costituito dalla figura stessa dell’autore, l’“enfant-prodige” Raymond Radiguet, che l’ha scritto a diciassette anni ed è morto a venti; il secondo dall’argomento scabroso, la storia d’amore, durante la prima guerra mondiale, tra un sedicenne e una diciannovenne già sposata. Una storia d’amore che infrange ogni codice sociale dell’epoca, e nella quale non mancano i momenti di forte erotismo. Però il valore dell’opera risiede solo in minima parte nei suoi contenuti “scandalosi”, i quali, ormai, non ci turbano più: sono i libri con le “patenti” più consolidate a offrire le sorprese maggiori, se solo ci si dà la pena di leggerli.

La vita di Raymond Radiguet è un perpetuo bruciare le tappe, in un’ansia di vita (e di letteratura) che lascia intravedere spesso l’impulso implacabile verso la morte. Nato nel 1903, di famiglia borghese e colta, abbandona la scuola a quindici anni per dedicarsi al giornalismo e alla pratica di scrittore.
Diviene ben presto uno dei personaggi più in vista della bohème parigina di quegli anni, gli anni dell’avanguardia, nei quali la capitale francese ferve di un’intensissima vita culturale: tra i protagonisti Jean Cocteau, suo grande amico e “pigmalione”, André Gide, Picasso, Stravinskij, Modigliani (che ritrae il giovanissimo Raymond). Nel 1923 ha luogo il lancio de " Il diavolo in corpo " da parte dell’editore Grasset, di Cocteau e di altri amici, con una campagna formidabile che utilizza anche il cinema come veicolo pubblicitario: c’è chi, tra i critici, storce il naso, ma il successo è immediato e travolgente. Pochi mesi dopo il tifo si porta via Radiguet, che ha appena terminato il suo secondo romanzo, " Il ballo del conte d’Orgel " .
La trama del libro è presto detta. Il protagonista, che racconta in prima persona la vicenda e che non ci dirà mai il suo nome, vive con la famiglia poco fuori Parigi, lungo la Marna. Allo scoppio del conflitto (giugno del 1914) ha da poco compiuto i dodici anni: è, dunque, di un anno più “vecchio” del suo creatore.
Gli eserciti si battono a poca distanza dalla capitale: sembra necessario fuggire; ma quando il fronte si allontana cominciano per tanti ragazzini “quattro anni di grandi vacanze”, nei quali la disciplina all’interno delle famiglie e le regole sociali sono rese meno ferree dai riflessi della guerra. Adolescente dalla sensibilità esasperata, il protagonista è – e si sente – lontanissimo sia dai suoi fratelli minori sia dal mondo degli adulti, rappresentato in primo luogo dai genitori, che alterna il moralismo all’indulgenza senza riuscire a contenere la sua inquietudine e la sua curiosità verso la vita. A quindici anni, nell’aprile del ’17, conosce durante una gita Marthe, la figlia diciottenne, fidanzata con un soldato al fronte, di amici di famiglia. Si piacciono subito. Dopo un mese si rivedono casualmente a Parigi: lei sta recandosi a fare compere per le nozze ormai prossime. Ma sarà lui, che marina la scuola per accompagnarla, a imporle la scelta dei mobili per la nuova abitazione, inaugurando quella “tirannia” intellettuale e sentimentale che sarà una costante del loro rapporto. Si perdono nuovamente di vista, e si rivedono quando Marthe si è già sposata: lei l’invita a casa sua, nella quale vive sola perché il marito, che la raggiunge nei rari giorni di licenza, è impegnato al fronte. Solo ora diventano amanti. Lo rimarranno per quasi un anno. È un amore che conosce giorni molto felici ma che è inevitabilmente destinato alla sconfitta, che non riesce a nascondersi al pettegolezzo e deve convivere con l’ostilità sempre più scoperta della società provinciale. Disposta a tutto pur di evitare lo scandalo, la famiglia di Marthe si decide però a separare gli amanti quando per la ragazza, rimasta incinta, si avvicina il momento di partorire. Arrivano i giorni dell’armistizio. La guerra finisce. Marthe muore di parto pronunciando il nome di quel figlio che il marito crede suo, e al quale ha dato il nome del protagonista.
I due giovani vivono la loro storia in maniera ben differente. Lei vi si abbandona completamente, sacrificando ad essa la sua reputazione e quasi annullandosi nella volontà del compagno. Quest’ultimo, pur innamorato, ai momenti di abbandono accompagna sempre l’analisi disincantata di ogni gesto, di ogni parola. Fin dai giorni del corteggiamento: “[…] adocchiai una fioraia. Le feci comporre un mazzo di rose rosse scegliendole una a una. Non pensai tanto al piacere di Marthe quanto alla necessità che avrebbe avuto di mentire ancora, e la sera stessa, per spiegare ai genitori da dove venivano le rose”. È molto più consapevole della precarietà del loro rapporto. Ma quest’intelligenza lucida, quasi morbosa nel razionalizzare i propri e gli altrui sentimenti invece di spingerlo a un’assunzione “adulta” di responsabilità, scivola di continuo verso l’auto-indulgenza e verso atteggiamenti capricciosi, quando non crudeli, nei confronti di Marthe. Non è certo un caso se " Il diavolo in corpo " è spesso accostato a uno dei romanzi più feroci nel rappresentare il dominio della ragione sulle passioni e la sua inevitabile sconfitta: Le relazioni pericolose di Laclos. Qualcuno si ricorda del perfido Valmont che detta alla dolce Cécile Volanges, da lui sedotta, le lettere per il fidanzato? Radiguet, letteratissimo ancorché giovanissimo, cita: è il protagonista che impone a Marthe di scrivere al marito “le uniche lettere tenere che egli abbia mai ricevuto”.
Sentiamo che il “cortocircuito” tra la brama di vivere e la necessità di guardarsi dentro spietatamente è appartenuto allo scrittore, a Raymond Radiguet, e non solo alla sua creatura.
Il tempo è forse la dimensione nella quale più si sviluppa la poesia de Il diavolo in corpo. Il romanzo sembra reggersi su due grandi “equivoci”. Il primo è quello, proprio del protagonista, tra il tempo della fanciullezza e quello della maturità, dichiarato fin dalle primissime righe. È un “incipit” meritatamente famoso: “Sì, mi aspettano dei rimproveri. Che cosa ci posso fare? È colpa mia se compivo dodici anni qualche mese prima della dichiarazione di guerra? Forse le emozioni di quel periodo straordinario furono di un genere che non si prova mai a questa età; ma dal momento che non c’è niente di così formidabile che riesca ad invecchiarci, malgrado le apparenze, era fatale che io agissi da bambino in un’avventura che avrebbe messo in imbarazzo persino un uomo fatto”. Il secondo “equivoco” (non trovo termine migliore) è tra il tempo della felicità per la coppia e quello della tragedia per tutti coloro che la circondano. Risulta fortissimo in tutto il libro il senso della catastrofe, vicina o lontana che sia, che attende i due protagonisti quando la strage infinita della guerra terminerà, riportando i combattenti alla vita delle loro famiglie. Il diavolo in corpo è una testimonianza preziosa dello sconvolgimento di valori provocato dalla prima guerra mondiale. È anche questo. Ma è anche una rappresentazione della corsa, tante volte brutale e incomprensibile, che è la vita di ogni uomo, in ogni tempo e latitudine. Nelle sue pagine ritroviamo qualcosa che riguarda tutti noi come ha riguardato il ragazzino Raymond, e che ci turba profondamente.

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LA CAMERIERA SUL TETTO DEI MARECHAUD
“È raro che un cataclisma si verifichi senza fenomeni premonitori. […] il mio vero ricordo di guerra precede la guerra”. Così il protagonista introduce un fatto cui ha assistito, e che lo ha molto impressionato, quando aveva dodici anni. È uno degli episodi più belli del romanzo.
Una domestica dei Maréchaud, famiglia in vista della cittadina in cui vive il protagonista, è salita sul tetto della loro villa e non vuol più scendere. Non veniamo a sapere che cosa l’ha spinta, anche se la moglie di un rivale politico di papà Maréchaud insinua subito che i padroni la picchiano. Davanti alla villa si radunano le famiglie e i ragazzotti locali, mentre i pompieri tentano inutilmente di ammansire la donna. I Maréchaud, per timore di scandali, “avevano subito chiuso le persiane, cosicché la tragedia della pazza sul tetto aumentava perché la casa sembrava abbandonata”. È notte. La folla si è un poco spersa allorché la sventurata si butta di sotto. Il protagonista, che ha voluto rimanere fino all’ultimo, racconta: “Quando rinvenni mio padre mi portò sulla riva della Marna. Ci restammo a lungo, in silenzio, sdraiati sull’erba. Al ritorno credetti di vedere dietro il cancello una sagoma bianca, il fantasma della cameriera! Era invece padre Maréchaud in berretta di cotone che contemplava i danni, la tettoia, le tegole, i prati, i cespugli, i gradini coperti di sangue, il suo prestigio distrutto”.

 
   
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